Donne come Gisèle Pelicot sono preziose. Spesso chi è vittima di abusi sessuali si chiude nel silenzio, talmente sono profonde le ferite subìte; è un atteggiamento di difesa, che mira a far cadere nell’oblio quegli attimi, nella speranza di cancellarli dalla memoria. Riportarli a galla equivale a riviverli. Il problema è che dimenticare è impossibile. La soluzione è riuscire a convivere con certi dolori, e per farlo è necessario un percorso psicologico.
Denunciare, poi, è altrettanto complicato. Oltre a riaprire le ferite davanti a sconosciuti, sussiste la paura delle eventuali ritorsioni e della stigmatizzazione: “Eh, ma se l’è cercata”; “lo ha provocato”; “impossibile, lui è un bravo ragazzo, e lo sanno tutti che lei è una in cerca di attenzioni”, eccetera.
Premettendo che davanti a ogni circostanza vale il principio del garantismo, le vittime di abusi devono denunciare, per sé stesse e per tutte le altre persone che potrebbero incorrere nei loro carnefici. Gisèle Pelicot è preziosa in quanto figura edificante per ogni donna che non trova il coraggio di recarsi dalle forze dell’ordine.
Gisèle vive a Mazan, una cittadina di meno di diecimila abitanti, in Francia. Nel 2020, quando suo marito Dominique Pelicot, con cui era sposata da quasi cinquant’anni, viene arrestato per aver filmato sotto le gonne di alcune ragazze in un centro commerciale, scopre di avere a fianco un mostro.
La polizia sequestra il computer dell’uomo, e aprono video raccapriccianti che immortalano Gisèle, incosciente, fare sesso con decine di individui. Dominique drogava la moglie, e attraverso un forum dal titolo “A sua insaputa”, invitava a casa uomini che abusavano sessualmente di lei, lungo un periodo durato dieci anni. Ogni stupro è stato filmato. È così che riusciva a soddisfare le proprie perversioni.
Il processo a Dominique Pelicot e ai cinquanta uomini colpevoli di aver stuprato una donna priva di sensi, che oggi ha 75 anni, è cominciato a settembre di quest’anno. Gisèle ha rinunciato al suo diritto alla privacy per rendere pubblica la sua triste vicenda, in modo tale che “la vergogna cambi lato”, ovvero che la reputazione rovinata non ce l’abbia lei, ma coloro che le hanno fatto del male.
Come se non bastasse, uno degli stupratori era sieropositivo, e il marito, pur sapendolo, ha acconsentito che non usasse il preservativo.
In Francia Gisèle è diventata un’icona femminista di coraggio e di libertà, e grazie al suo esempio si sono formati gruppi di donne che si battono per aumentare la consapevolezza circa i crimini sessuali. Vari articoli internazionali, come quello di Eric Fassin su “Le Nouvel Obs”, riportano come la causa di questi sia il patriarcato, o meglio, la resistenza del patriarcato verso il suo inevitabile tramonto.
Come ben sappiamo, negli ultimi decenni le donne hanno acquisito sempre più indipendenza, sia nella vita familiare che lavorativa. Se cento anni fa la maggioranza delle donne non lavorava e rimaneva a casa ad accudire i figli, oggi fa carriera esattamente come gli uomini. Un tempo le donne dovevano sottostare alle regole del capo famiglia, marito e padre dei figli, ma oggi, per fortuna, non è più così.
La fine del patriarcato, inteso come sopraffazione verso la controparte femminile, agisce nella mente degli uomini forse a livello inconscio, ma siamo sicuri che sia la causa principale delle violenze che vengono compiute verso le donne?
In aula Pelicot ha ammesso di aver agito per soddisfare i propri desideri sessuali, e non per mettere in atto la sua superiorità maschile, o per il fatto che lui si sentisse inferiore a Gisèle - lei aveva un lavoro ben retribuito, lui no -, e che quindi la volesse dominare per punirla in quanto simbolo di emancipazione. Il colpevole della suddetta violenza è il desiderio, e l’incapacità di alcuni uomini di non riuscire a tenerlo a freno.
Agire il desiderio significa attuarlo, e per farlo si può incorrere nel crimine. La società di oggi, attenta ai diritti delle minoranze, dove le donne rivendicano ogni forma di indipendenza dal maschio e occupano posti apicali un tempo appannaggio degli uomini, non ha il potere di creare assassini e stupratori.
Se così fosse, sarebbe sufficiente far ripiombare il mondo all’era vittoriana, quando le donne potevano esercitare solo la professione di insegnante o di domestica, e dipendevano in tutto e per tutto dal marito.
In ogni società c’è il rischio di incorrere in criminali. Certamente l’ambiente influisce, ma i responsabili delle azioni delittuose ingiustificabili, come i casi di stupro, rimangono pur sempre loro, gli uomini. Ted Bundy, il noto serial killer di donne statunitense, ha compiuto i suoi delitti tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, quando negli Stati Uniti i movimenti femministi cominciavano a farsi sentire e le donne acquistavano man mano sempre più indipendenza.
Egli sarebbe stato un assassino anche se fosse nato nell’Ottocento o ai tempi nostri. Prima di sedere sulla sedia elettrica e passare a miglior vita, attribuì la colpa della sua malvagità alle scene di dominazione maschile stampate sulle riviste pornografiche che cominciò a leggere quando era bambino. Ma il problema non era la pornografia, bensì la sua anima nera, e la sua ineducazione a contenerla.
Su un muro di una via di una città francese, un collage del gruppo “Collages féminicides” recita: “Pas tous les hommes, mais que des hommes”, ovvero “non tutti gli uomini, ma solo uomini”, in riferimento agli stupri commessi in Francia.
Ebbene, quando l’Europa precipitò nel periodo buio degli attentati di matrice islamica, circa dieci anni fa, politici e giornalisti - la maggior parte dei quali di destra - utilizzava l’espressione: “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”.
Le due frasi, per quanto simili, sono differenti. Tale divergenza consiste nel contesto dei soggetti chiamati in causa. I terroristi musulmani agivano, e agiscono, in nome di un’ideologia malata, mentre gli uomini che stuprano e uccidono le donne sono mossi da interessi soggettivi, alla cui base c’è il desiderio o di soddisfare un piacere sessuale, o di eliminare una figura considerata indegna di vivere per le più svariate ragioni - tradimento, decisione di far finire la relazione, aver denunciato gli abusi.
Se nel caso dei terroristi è possibile, e doveroso, da parte delle autorità, agire nel contesto in cui vivono - arrestando chi professa l’uso della violenza e facendo guerra ai mandatari degli attentati, come è accaduto nel caso dell’Isis -, nel caso degli stupratori tale possibilità è negata.
Se crediamo che siano la fine del patriarcato e le rivendicazioni femministe i responsabili di storie come quella di Gisèle Pelicot, allora dovremo ricostituire le società passate, dove le donne non avevano alcun diritto. Ma il genere umano, come si sa, si nutre di conquiste, e l’uomo non può fare altro che accoglierle.
Nulla contro le femministe e i sacrosanti diritti delle donne, che in alcune parti del mondo sono tuttora negati, ma i gruppi femministi di oggi come reagirebbero alla frase: “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani?”
E’ una domanda da porci, dal momento che spesso tali gruppi sono contrari a qualunque forma di pregiudizio, ma, come risulta evidente dalla frase “non tutti gli uomini, ma solo uomini”, in realtà ne nutrono anche loro. Piuttosto che soffermarci sull’eventuale accusa di fare di tutta l’erba un fascio, dovremo valutare i fatti per come sono davvero, e i fatti ci dicono che in quel periodo, in Europa, gli attentatori erano musulmani, e che la stragrande maggioranza degli stupratori sono uomini. Dalla piena consapevolezza della verità è possibile operare un cambiamento in positivo.
In definitiva, uomini come Dominique Pelicot non hanno alcuna scusante. Non sono stati indottrinati da autorità religiose, come possono essere imam o califfi quando ordinano di uccidere gli infedeli in nome di Allah. No, uomini come Pelicot non hanno subìto alcun lavaggio del cervello, e nessuno gli ha insegnato a fare del male alle donne per dar sfogo ai propri istinti sessuali.
Erano consapevoli di operare il male, perciò devono essere puniti severamente.
Insegnare che le donne non sono oggetti di proprietà degli uomini è soltanto un primo passo per evitare simili tragedie, ma senza un’educazione alla convivenza con sé stessi, che aiuta a disinnescare i desideri malvagi, e li incanala in direzioni diverse - leggasi creative -, non otterremo grandi risultati.
Il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, dovrebbe ricordarci che educare significa salvare vite umane. E queste vite, spesso, hanno i capelli lunghi e il volto truccato.
Articolo a cura di Paolo Insolia