La grande illusione dei talent: 'scorciatoia' per il successo
Da qualche anno esistono dei movimenti che propongono un modello esistenziale alquanto rilevante nella nostra società: quello del “chiunque può fare qualsiasi cosa”. Che il tema sia la politica, la cucina o la moda poco importa. Prendiamo, come linea guida, il format televisivo del talent show, recentemente esploso in una miriade di forme e significati differenti. Lo scopo del talent show è quello di trasformare un normale cittadino in star televisiva, con tanto di titoli, onorificenze e bagni di folla mediatici. Per quanto il fine ultimo di questi programmi televisivi sia semplicemente quello di moltiplicare le percentuali di share televisivo e, perché no, creare una vigorosa pubblicità per coloro che sono chiamati a giudicare i concorrenti, l’idea è molto carina. I protagonisti sono persone comuni chiamate a realizzare il loro sogno di diventare grandi chef o di calcare i palchi mondiali della musica duettando con grandi stelle dello spettacolo. La “persona comune”, catapultata nel mondo dell’eccellenza e della grandezza, che avvera in parte la profezia dell’artista Pop Andy Warhol. Questo è un modello che è stato acquisito anche per attività che alla televisione si approcciano in modo differente, come la politica. Pensiamo al Movimento 5 Stelle: propone, attraverso una delle numerose versioni di democrazia che esistono, quella diretta, di trasformare il comune cittadino in Deputato o Senatore, passando attraverso una rapida selezione via web per le votazioni preliminari. L’idea è semplice e le cose semplici, si sa, non sono mai banali. Perché il riuscire a connettere dei mondi così lontani, come quello della società civile e della politica o quello del dilettantismo e del professionismo artistico, non è certamente banale. E’ un’esperienza, e come tale offre possibilità di scelta e di cambiamento per le molte persone che in tutto il mondo si cimentano in questo tipo di carriera. La voglia di emergere dalla sterminata massa di omologazione nella quale siamo immersi ci porta a interpretare entusiasticamente una realtà che offre questa possibilità con tutti gli onori del caso. Ma quanto realmente questi movimenti giovano alla collettività? Ricapitolando: il talent show permette al cittadino di diventare un astro nascente in uno specifico campo. Prende una tra le migliaia di aspiranti star e la pone su un piedistallo, dal quale le chiederà di scendere entro la stagione successiva. Quindi: rendere speciale qualcuno perché in poche settimane di prove televisive ha mantenuto i nervi più saldi o si è solo comportato meglio nelle fasi cruciali dello show. Prendere dei dilettanti e trasformarli in piccole stelle del firmamento dorato della celebrità. Questa, io credo, si chiama banalizzazione delle competenze e, quindi, banalizzazione della realtà. Crediamo realmente possibile che un paio di risotti ben riusciti possano trasformare un agente immobiliare in chef? Davvero vogliamo pensare che si possa passare dall’essere uno studente di liceo a star della musica per il semplice fatto di aver cantato con una bella voce e un bel visino qualche cover famosa? La risposta è si. Chiunque vorrebbe poter diventare quello che vuole con il minimo sforzo. Tutti vorremmo avere il nostro ristorante in riva al mare dopo aver passato un solo mesetto in uno studio televisivo. E proprio tutti tutti saremmo vogliosi di diventare deputati della Repubblica Italiana passando attraverso la sola pubblicazione di un video sull’apposito sito. Quindi amiamo questa possibilità, questo format, questa idea che ci viene posta davanti agli occhi sognanti e desiderosi di cambiamento. Peccato che non sia questa la strada che produce competenza, ne tantomeno qualità. Le grandi conquiste si ottengono compiendo grandi sforzi e concentrandosi sugli obiettivi che, spesso e volentieri, diventano irraggiungibili. Per ottenere le stelle Michelin (riconoscimento di prestigio internazionale nell’ambito della ristorazione) servono anni di esperienza ai fornelli, tante idee, infinita passione e sterminata conoscenza degli ingredienti. Per diventare artisti dello spettacolo, veri artisti, si può passare solo ed esclusivamente attraverso un processo di selezione, di formazione e di dedizione. Chi canta sotto la doccia o scrive qualche orecchiabile strofetta dal contenuto banale non è un appassionato, né tantomeno un talento. Scrivere su un blog o pubblicare un video montato maldestramente non rende politici, così come scrivere un articolo non rende giornalisti. Ci stiamo dimenticando l’eccellenza. Stiamo abbandonando del tutto la strada della difficoltà e ci siamo imbarcati in un percorso di smantellamento delle competenze in favore in un mondo un po’ più semplice per tutti, un po’ troppo semplice, i cui prodotti omologati e lineari sono sotto gli occhi di tutti. Non è banale, la semplicità, ma può essere banalizzante. Cosa significa? Significa che i modelli interpretativi con cui i “talenti” possono essere valorizzati dipendono, in realtà, da quello che i sempre uguali e altezzosi giudici hanno in testa o dalle masse di persone che votano attraverso i social network e quindi i talenti non sono valorizzati per quello che sono, ma per quello che devono essere. Non sono artisti, sono imitatori. Spesso nemmeno troppo bravi. Siamo ormai sulla strada del dilettantismo diffuso, della banalizzazione dei ruoli e del livellamento delle parti, come se davvero chiunque potesse fare qualsiasi cosa. Per favore, non fatemelo credere.
Jacopo Gheser
Jacopo Gheser nasce nel gennaio del 1993 e risiede nel paese di Bivigliano. Dopo essersi diplomato al Liceo Scientifico Guido Castelnuovo, frequenta un anno di Management presso il Dipartimento di Economia e Management di Pavia come alunno del Collegio Ghislieri. Attualmente è iscritto al corso di Laurea in Sviluppo Economico e Cooperazione Internazionale all’Università di Firenze. Appassionato di viaggi e di buone compagnie, ha da poco iniziato ad interessarsi alla scrittura come forma di comunicazione.


