
Il 13 giugno Israele ha lanciato un attacco contro i siti nucleari iraniani, dando ufficialmente inizio a una guerra aperta con Teheran. A distanza di giorni, il bilancio è pesante: centinaia di morti, escalation continua e scenari geopolitici sempre più incerti. Il conflitto affonda le sue radici nella storia, nei trattati violati, nella paura esistenziale e nelle profonde contraddizioni che muovono tanto Netanyahu quanto Khamenei. Ma oltre i regimi, resta un dramma umano condiviso: civili innocenti, da entrambe le parti, intrappolati in un ciclo di violenza che sembra non avere fine. L'editoriale di Paolo Insolia.
Guerra in Medio Oriente: il regime iraniano ha i giorni contati?
E Israele è così forte come si dice? Possibili scenari di un conflitto annoso.
Sono giorni di guerra aperta tra Israele e Iran, e i danni subìti da entrambe le fazioni sono già ingenti, anche se - com’era prevedibile - è il secondo ad aver incassato maggiormente. Ma prima di far luce sul presente e sugli scenari futuri, veniamo ai motivi che hanno causato questa pericolosa escalation. Il 13 giugno scorso Israele ha lanciato attacchi missilistici contro i siti nucleari della Repubblica Islamica, colpevole - secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e l’intelligence israeliana - di avere una quantità di uranio arricchito sufficiente alla messa a punto di nove bombe atomiche, che secondo il governo di Netanyahu metterebbero a rischio l’incolumità del paese, poiché dal 1979 l’Iran - anno in cui salì al potere la Guida Suprema Ruhollah Khomeyni (predecessore dell’attuale Khamenei), fondatore della Repubblica Islamica Sciita - non ha alcun rapporto commerciale e diplomatico con lo stato ebraico, e non lo riconosce come tale. Da allora, l’iran è il principale finanziatore di gruppi armati che mirano alla distruzione di Israele, quali Hezbollah e Hamas.
Sulle armi nucleari esiste un importante accordo, chiamato Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), entrato in vigore nel 1970 e basato sui principi di disarmo, non proliferazione, uso pacifico del nucleare. Il trattato riconosce come paesi nucleari quelli che avevano sviluppato armi con tale tecnologia prima del 1967, ovvero Stati Uniti, Unione Sovietica - adesso Russia -, Cina, Regno Unito e Francia, e vieta agli stati firmatari non nucleari di dotarsi di ordigni atomici e a quelli nucleari di trasferirli. 191 sono gli stati che hanno aderito al trattato, e quattro sono quelli non firmatari che possiedono armi atomiche: India, Pakistan, Corea del Nord, Israele. Grazie all’accordo le testate nucleari sono scese alle 23.000 unità odierne, contro le quasi 70.000 del picco raggiunto nel 1986, in piena Guerra Fredda.
L’Iran ha una storia particolare riguardo la questione del nucleare. Nel 2015, durante l’amministrazione Obama, venne raggiunto un accordo a Vienna, conosciuto come accordo sul nucleare iraniano, sottoscritto dal paese islamico, dall’Unione Europea e dai 5 membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più 1, ossia Cina, Francia, Russia, Stati Uniti, Regno Unito e Germania, e prevedeva che l’Iran, in cambio della cessazione delle sanzioni economiche imposte dalle Nazioni Unite con la Risoluzione 1747, rinunciasse all’arricchimento indiscriminato dell’uranio, arrivando a un massimo di 3,67% per i prossimi 15 anni.
L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca ha ribaltato la trattativa. Nel 2018 infatti il tycoon si è ritirato dall’accordo, introducendo nuovamente le sanzioni al regime dei pasdaran - l’organo militare iraniano istituito dopo la rivoluzione del 1979 -. In risposta l’Iran, che non aveva mai violato l’accordo, ha ripreso l’arricchimento dell’elemento chimico. Ed è qui che il conflitto armato con Israele comincia a prendere forma, per poi scoppiare ufficialmente cinque giorni fa, il 13 giugno, quando il governo israeliano ha deciso di attaccare bombardando i centri nucleari, nell’operazione che l’IDF - le Forze di difesa israeliane - ha chiamato Rising Lion (Leone Nascente). Il motivo è di facile intuizione: secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica - Iaea - l’Iran era a un passo dal dotarsi della bomba nucleare, avendo raggiunto l’arricchimento dell’uranio al 60%, una cifra vicina al 90% necessario alla sua costruzione. Netanyahu ha affermato che l’operazione - che durerà il tempo necessario a mettere Israele al riparo - è andata a buon fine: oltre a aver inflitto danni alle basi nucleari, sono stati colpiti siti missilistici. Nei bombardamenti sono morti scienziati nucleari e diversi alti funzionari, come Hossein Salami, comandante in capo delle Guardie rivoluzionarie, e più di 200 civili innocenti.
L’Iran ha risposto a sua volta lanciando razzi contro il paese ebraico, la maggior parte dei quali intercettati dall’Iron Dome, il sistema missilistico di difesa israeliano. I pochi che sono riusciti a penetrare hanno colpito la capitale, Tel Aviv - causando tre vittime e 80 feriti - e Tamra, vicino Haifa, dove è stata centrata una raffineria di petrolio, causando 14 feriti. Israele ha risposto duramente, bombardando la sede della televisione di stato iraniana, a Teheran, e l’Iran ha risposto con altro fuoco, in un botta e risposta che potrebbe far precipitare la situazione in un conflitto ancora più ampio e sanguinoso. L’obiettivo di Netanyahu, come lui stesso ha dichiarato, è fare fuori Khamenei, il leader supremo che, sulla scia del suo predecessore, ha trasformato il paese in un regime dove le donne contano meno di zero, e le proteste - come quelle scoppiate a seguito della morte della studentessa universitaria Mahsa Amini, fatta fuori dalla polizia religiosa per non avere indossato il velo in maniera corretta, che ha portato alla morte per mano delle forze dell’ordine di 448 manifestanti - vengono represse nel sangue.
Per comprendere le mosse di Israele non possiamo prescindere dalla sua geografia. Il paese ebraico, costituitosi nel 1948 a seguito del Piano di partizione della Palestina voluto dall’ONU, si trova in una posizione geografica sfavorevole. E’ infatti circondato da paesi arabi, o non arabi ma a maggioranza musulmana - come l’Iran - che sono governati da leader o organizzazioni terroristiche che non lo riconoscono come entità statale e che si dichiarano suoi nemici. Esempi emblematici sono Hamas, che governa la Striscia di Gaza dal 2006, Hezbollah in Libano, gli houthi in Yemen, e, appunto, l’Iran di Khamenei. Durante il corso della sua storia Israele ha combattuto numerose guerre, ed è stato vittima di gravi attentati terroristici - è proprio l’attentato compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023 ad aver scatenato il conflitto che si combatte ancora oggi nella Striscia di Gaza -. La paura di essere attaccati e invasi è la prima preoccupazione di Israele che infatti, in rapporto al PIL, è uno dei paesi al mondo con il maggior investimento nella difesa - i dati del 2022 dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) parlano del 4,51% -.
Il governo Netanyahu ha ritenuto che l’Iran fosse diventato una minaccia esistenziale per il paese, e ha deciso di passare all’attacco, in un’operazione preventiva contro un regime che sogna di far pagare al popolo israeliano la sottrazione di un territorio che, secondo i suoi leader, appartiene soltanto ai palestinesi. La domanda sorge spontanea: ha fatto bene Israele a compiere un gesto del genere? Qui arriviamo al tema della paura. E’ lei, la paura di essere colpiti, a muovere le azioni dei due capi di stato che oggi stanno compromettendo gli equilibri internazionali: Putin e Netanyahu.
Tra i motivi che hanno spinto il presidente russo a lanciare una vasta operazione bellica sull’Ucraina figura la sua ferma opposizione all’ingresso di Kiev nella NATO - l’alleanza militare tra Europa e Nordamerica - poiché, nel caso accadesse, la Russia avrebbe molta meno influenza su un paese abitato da persone appartenenti al suo stesso ceppo etnico - gli slavi orientali - e che faceva parte dell’ex URSS, e in più avrebbe ai suoi confini un potenziale nemico - anche se in realtà è successo: dal 2023 la Finlandia (che confina a est con la Russia) è diventato un membro della NATO -. Il timore di avere il nemico alle porte di casa, che colpirebbe Mosca con maggiore facilità, ha dato inizio a un conflitto che va avanti da più di tre anni, con migliaia di morti e feriti. Netanyahu si sta comportando allo stesso modo, sia all’interno della Striscia di Gaza che adesso in Iran. La paura che Hamas possa compiere in futuro azioni simili a quella del 7 ottobre ha fatto sì che Israele decidesse di far fuori ogni membro dell’organizzazione. Ciò ha provocato decine di migliaia di cosiddette vittime collaterali, ossia i civili colpiti in attacchi il cui reale obiettivo erano i miliziani. Nonostante quasi tre anni di guerra, Israele è ancora lontano dal giustiziare l’intero corpo di Hamas, al riparo sotto terra nei lunghi tunnel che attraversano la Striscia.
In Netanyahu si cela una profonda contraddizione: bombarda uno stato sovrano per proteggere il paese che governa, e al contempo tollera e promuove la sottrazione di territori appartenenti ai palestinesi. Il riferimento è al fenomeno delle colonie, ovvero gli insediamenti illegali in terra palestinese - precisamente in Cisgiordania, occupata militarmente dalla Guerra dei sei giorni, combattuta nel 1967 e che vide vincitore Israele -, abitate per la maggior parte da estremisti di destra che desiderano che l’intera Palestina sia governata da Tel Aviv, con buona pace dei palestinesi che dovrebbero sloggiare altrove. E’ proprio questo il loro piano: prendere possesso di quanta più terra possibile per far sfumare il sogno di uno stato palestinese.
Il governo odierno in Israele è nazionalista, e ha sempre incentivato la nascita di colonie, considerate illegali dall’ONU. Lo scorso 29 maggio Israele ha annunciato la creazione di 22 insediamenti nella Cisgiordania occupata, e Netanyahu nelle scorse settimane ha fatto sapere, tramite un videomessaggio, che gli abitanti palestinesi della Striscia di Gaza dovranno lasciare per sempre le proprie case e trovare ripare in un paese ospitante. Vedete, Bibi difende a spada tratta il suo popolo: ha ordinato di far fuori leader importanti, come il Segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, ucciso sotto le bombe nel settembre 2024 a Beirut, o Ismail Haniyeh, Capo di Hamas nella Striscia di Gaza, anche lui ucciso il 31 luglio 2024 in un bombardamento a Teheran, senza ritorsioni degne di nota. Israele ha colpito, con precisione chirurgica, decine e decine di personaggi influenti che lavoravano per la sua dipartita, scovandoli ovunque. Non sono bastati gli spostamenti in segreto, le innumerevoli misure di sicurezza, e i chilometri e chilometri di distanza: no, il paese ebraico ha sempre fatto centro. Ciò fa capire la superiorità nei confronti dei suoi nemici.
Come Netanyahu protegge i suoi cittadini, lo stesso fanno i palestinesi e i loro alleati. Con questo non significa giustificare Hamas o Hezbollah, ma riflettere che cosa spinge a unirsi a tali organizzazioni. La risposta è la stessa per la quale il presidente israeliano ha scelto di fare politica: battersi per il benessere dei propri cittadini. Il timore che Netanyahu prova nei confronti del regime iraniano e di Hamas è la stessa che provano i palestinesi verso i coloni che bruciano le loro case, uccidono il bestiame e costruiscono quartieri in zone che fino a poco tempo prima gli appartenevano. La paura dei palestinesi è vedersi privare della terra dei loro antenati, è sapere che un giorno un missile destinato a un terrorista possa togliere la vita ai loro bambini. Unirsi a gruppi come Hamas spesso è l’unico modo di resistere.
Quando due forze nemiche si combattono si è spesso propensi a stare dalla parte di chi consideriamo alleato, ed è normale schierarsi per Israele, paese democratico con uno stato di diritto di stampo occidentale - almeno sulla carta -. L’Iran, come altri paesi del Medio Oriente - e non solo -, ha una visione della società fondata sul Corano, un libro sacro antico e figlio dei suoi tempi. Matrimoni combinati, donne che non possono uscire di casa senza velo - pena il carcere -, l’omosessualità punita con la pena di morte, sono tutte pratiche che l’Occidente aborra, e dobbiamo batterci affinché non siano mai tollerate, almeno entro i nostri confini. Ma non bisogna mai dimenticare che spesso i cittadini di quei paesi sono le prime vittime dei regimi in cui vivono.
Per concludere: essere contro la radicalità dell’Islam e personaggi come Khamenei non deve portarci a odiare intere popolazioni, e soprattutto che non basta essere democratici e rispettare i diritti delle minoranze per avere l’approvazione dei cittadini - come fa Israele - se poi non si rispettano i diritti di un intero popolo - quello palestinese - che continua a soffrire e chiede il proprio sacrosanto riconoscimento internazionale. Scrivere, e leggere, sono due azioni che servono proprio a portarci a riflettere, evitando di dare giudizi affrettati e scialbi, quali non vedere le turpi azioni commesse dallo stato ebraico e tifare per la distruzione dell’Iran, abitata da novanta milioni di persone, molte delle quali antagoniste al regime.
Autore: Paolo Insolia