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Lo spettacolo delle cascate Iguazù (America Latina), viste, fotografate e raccontate da una mugellana...

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Dalla nostra collaboratrice e redattrice Caterina Suggelli riceviamo questo splendido racconto per parole e immagini di una visita molto particolare alle Cascate di Iguazù, tra Brasile, Paraguay ed Argentina. Buona lettura....

“C'è un piacere nei boschi senza sentieri,
C'è un'estasi sulla spiaggia desolata,
C'è vita, laddove nessuno s'intromette,

Accanto al mar profondo, e alla musica del suo sciabordare:
Non è ch'io ami di meno l'uomo, ma la Natura di più...”

George Gordon Byron

Le cascate di Iguazù sono un indicibile spettacolo della natura, un’elettrizzante messa in scena del paesaggio che nessuna immagine e nessun racconto può descrivere.

Di fronte a un fenomeno di tale portata, carico di energia esplosiva, puoi solo fermarti ad ammirare e ringraziare di farne parte, sebbene ogni momento che passa, ogni singola goccia d’acqua che sfugge alla vista, serva solo a ricordarti di quanto piccolo e fugace sia il tuo passaggio sulla terra...

 

...sulla strada...

Dopo alcune settimane trascorse dentro caotiche giungle d’asfalto, salgo finalmente sull’autobus della speranza che, con un viaggio di 18 ore sotto un continuo scroscio di pioggia tropicale che non lascia respiro, mi porta fino a Foz de Iguazù, una tranquilla cittadina brasiliana dello stato di Paranà, a Las Tres Fronteras, al confine tra Brasile, Paraguay e la provincia argentina di Misiones. Appena scesa alla stazione, sono il caldo umido della foresta subtropicale e il silenzio dei vasti spazi che mi danno il benvenuto. È affascinante conoscere nuove città, mi ripeto ogni volta, ma il misterioso richiamo della natura non ha confronto, vince sempre.

 

.. uno scorcio da brivido...

In questa regione lontana e ancora selvaggia, nonostante il sole cocente, il corpo si rilassa e si ricarica, ritrova il suo equilibrio, e invita la mente a seguirlo, una volta tanto. Il lungo viaggio via terra, con i suoi paesaggi che cambiano lentamente sotto gli occhi, con la pioggia battente che spaventa e che propizia, sembra avermi lavato via di dosso lo stress dei frenetici ritmi di San Paolo e del suo incessante traffico, del lavoro e delle preoccupazioni per il futuro, per le incognite che necessariamente riserva.

 

... il salto...

Arrivo a Iguazù con il mio zaino già pieno di strada ma libera dal suo peso, stanca del viaggio ma pronta a riprenderlo nuovamente, pronta a farmi sorprendere da una di quelle 7 Meraviglie del Mondo che hanno convinto l’UNESCO a dichiarare questa regione e i suoi parchi “Patrimonio dell’Umanità”.

Una volta liberate le spalle e la testa, dopo una rinfrescante doccia all’aperto, mi faccio consigliare dai ragazzi dell’ostello la migliore opzione per visitare i Parchi Nazionali e le cascate, visto che ce ne sono diverse ed è facile perdersi tra le differenti proposte e le numerose frontiere.

In un simpatico “portignolo”, mi raccontano che la visita sul lato brasiliano è migliore per il punto di vista panoramico, mentre la visita sul lato argentino è più interessante e coinvolgente, perché prevede lunghi sentieri che si inoltrano nella foresta e arrivano fino al cuore delle cascate, dentro la famosa “Garganta del Diablo”, la gola del diavolo, la quale, nonostante il satanico soprannome, mi sta subito simpatica perché mi ricorda la nostra affascinate e oscura Valle dell’Inferno, sul gelido ruscello Rovigo, a Badia di Moscheta, dove tante volte ho fantasticato sù e giù per quei pendii...

 

... la Garganta del Diablo...

Mi metto a leggere in giardino, per confrontare quel che dice la mia guida, e chiedere il parere di altri viaggiatori che vedo di ritorno, ma pare che nessuno abbia dubbi, è la visita dalla parte argentina, da Puerto Iguazù, che tutti raccomandano.

Poi finalmente arriva la notte a portare i suoi buoni consigli, insieme a un po’ di refrigerio e nuove conoscenze: distesa su un’amaca sotto questo sorprendente cielo australe, in compagnia di viaggiatori curiosi, rane cantanti e lune crescenti, tra una lettura e una caipirinha, scopro che per i guaranì, gli indios di queste regioni, Iguazù significa proprio “grandi” (guasu) “acque” (y), tanto grandi che negli anni ’70 il governo brasiliano e paraguaiano hanno deciso di costruirci una diga immensa, la Represa de Itapù (“la roccia che suona”, in guaranì), che per molti decenni è stata la più grande del mondo, tanto grande che anche dal giardino dell’ostello sembra di percepirne le vibrazioni...

I miei viaggi tra le righe e l’immaginazione, che già mi fanno pregustare le emozioni dell’avventura che mi aspetta, vengono a un certo punto interrotti dalla bassa voce del guardiano notturno, un vecchietto dai lineamenti indigeni, con una pelle scolpita dal sole e dalle rughe degli anni, come il vecchio tronco di un albero:

 “E quindi è qui anche lei per vedere le cascate, signorina...

Ne vengono a fiumi di persone a vederle, perché sono davvero magiche, lo sa?! Ma no, questo non tutti lo sanno... Lo sa lei, per esempio, come sono nate queste cascate?! Magari, una come lei, che passa le ore con i libri in mano, lo ha già saputo proprio da uno di quei libri come sono nate, ma io, io che ho sempre vissuto qua e i libri li ho visti solo nelle mani degli altri, io come sono nate le cascate l’ho saputo fin da sempre, dalla bocca di mio nonno che parlava attorno al fuoco...

Mio nonno raccontava che una volta Tupà, il capo supremo degli dèi, aveva mandato suo figlio, il serpente-fiume M’boi, a proteggere la nostra tribù, ma M’boi presto si innamorò della bella Naipi, la figlia del capotribù Igobi. Il nonno diceva che Igobi era troppo preoccupato del suo potere e, pur di ingraziarsi i favori del dio, gli promise in sposa la figlia.

Ora, si dà il caso che Naipi fosse già innamorata di un giovane e valoroso guerriero, Tarobà, il quale contraccambiava quell’amore. Ciò nonostante Igobi fissò la data delle nozze, pressato dal dio M’boi che si era accorto di quella relazione. Raccontava il nonno che, come spesso succede quando l’uomo vuol porre il proprio potere al di sopra del potere dell’amore, quest’ultimo naturalmente si ribella e rifugge alle leggi costruite dagli uomini; così, la notte precedente il matrimonio, una notte come questa, illuminata dalla generosa dea luna, Naipi scappò dalla sua capanna per raggiungere il tormentato Tarobà, che in cuor suo la stava fiduciosamente aspettando, e insieme scapparono in canoa lungo il fiume.

Il dio M’boy, svegliato dal rumore delle pagaie, si rese conto della fuga e, accecato dalla gelosia, li inseguì tra le acque e, una volta raggiunta la canoa, la ribaltò con un furioso colpo di coda che aprì un enorme crepaccio tra la terra e l’acqua, nel quale caddero i due amanti. Non contento, fuori di sé dalla rabbia, trasformò Naipi in una roccia ai piedi delle cascate che si erano in quel modo formate, in maniera che la sfuggente ragazza fosse condannata a subire per sempre la forza del suo fiume, e Tarobà, invece, fu trasformato in una palma che sovrasta lo strapiombo, un guerriero condannato a guardare immobile la sua amata senza mai poterla neanche avvicinare...

Il nonno diceva che poi, quando il capo degli dèi Tupà seppe dell’accaduto, volle a sua volta punire la malvagità di suo figlio, per questo lo rinchiuse in una grotta ai piedi di quella palma, in un luogo nascosto dove nessuno più potesse ricordarsi di lui.

Si racconta che ancora oggi M’boy continua a ridere là sotto dell’infelicità dei due amanti, ma che nessuno fortunatamente può ascoltare la sua voce, vinta dal boato di quelle cascate che lui stesso ha creato...

È per questo, signorina, che per noi le cascate sono un luogo sacro, e qualsiasi cosa lei ne pensi adesso, dopo averle viste dovrà imparare ad ascoltarle e a non prenderle a cuor leggero, perché mi creda, le cascate nella loro lingua d’acqua sanno parlare a chi sa ascoltare!”

 Mi risveglio al mattino seguente con il sole nascente negli occhi, il petto fibrillante e uno strano strascico di sogni fumosi attorno al fuoco... Carico lo zaino di buona energia, frutta colorata e acqua fresca, diretta a prendere l’autobus che mi porterà alla frontiera argentina: la strada è lunga se voglio raggiungere la mia meta con i ritmi lenti della natura e del cuore, senza farmi tentare da un facile taxi-scorciatoia; la strada è lunga se voglio conoscere quel cammino passo per passo, senza prenderlo a cuor leggero, come mi aveva consigliato quel vecchio guardiano guaranì in una notte di luna piena...

Quando arrivo finalmente all’ingresso del parco, dopo aver passato a piedi le due dogane e alcuni chilometri di strada e polvere, sono già sudata e sporca, completamente rossa di quella terra impregnante che entra da ogni parte, ti si appiccica addosso e non ti lascia più.

Pellerossa.

 Come un’indigena.

 Entro con fiducia nel variopinto verde di questa foresta, tra i colori delle sue orchidee, delle sue farfalle e dei suoi uccelli, questa foresta tanto diversa dai boschi in cui sono cresciuta, eppure tanto vicina, tanto familiare. Cammino per i suoi lastricati sentieri con la facilità di chi già riconosce l’ambiente, ma senza mai dimenticare quel che sempre ricorda il nonno, che la natura è la natura, che non va mai presa sottogamba, va trattata con rispetto e umiltà, perché è l’unica che non si comanda e mai si comanderà, perché la natura se vuole si riprende tutto quel che ha dato, è sempre stato così...

Non è forse vero, Naipi, che ancora ne sopporti l’incessante potere?!

Salgo sù per il sentiero con l’eccitazione di un esploratore, devio lungo il dirupo con l’incosciente curiosità di un bambino che segue il volo di una farfalla, ascolto il rumore sempre più prepotente dell’acqua come un animale assetato, osservo oltre il verde delle foglie con l’attenzione del cacciatore che fiuta la sua preda, avanzo emozionata con la lena del pellegrino che intravede la sua mecca, finché d’improvviso, superata l’ultima curva della montagna, mi appare davanti l’incontrastata potenza del turbinio d’acqua che esplode fuori e dentro di me in uno scroscio vaporoso e riempie tutto l’orizzonte visibile, creando arcobaleni su misura come fossero ponti costruiti per riunire quei due infelici amanti.

Il potere magico delle cascate mi ha immobilizzato senza che me ne rendessi conto, mi fermo ad ammirarle in estasi come un eremita in preghiera, altri turisti mi passano davanti ma io neanche li vedo, l’acqua si è impossessata di me e mi trascina giù con i suoi amori, i suoi dèi, le sue lotte, le sue morti, la sua storia, i suoi miti, e quella fanciulla negata al suo amante... La vaporosa nebbiolina bianca che mi avvolge racconta di altri mondi, di altri tempi, di altri nonni che in notti antiche cantano altre storie che sono eterne e sono le mie stesse storie, che rivivo e ricordo perché mi abitano da sempre, mi abitano come abitano ogni uomo che sappia ascoltare.

Ecco il boato della natura, ecco il furore del vendicativo dio M’boi, potente sugli uomini eppure impotente contro la forza superiore dell’amore, ecco l’urlo del diavolo che stravolge e sorprende, ecco quella forza superiore che prende e trascina con sé a lavar via di dosso tutte le paure, tutte le fortezze costruite in difesa, tutti i pregiudizi dietro cui ci si nasconde, poveri mortali, per restituirci infine nudi alla luce del sole, ma con nuova memoria, nuova consapevolezza, nuova energia.

Ecco quello che probabilmente voleva dirmi ieri notte il vecchio guardiano, che siamo tutti uomini, tutti irrimediabilmente uguali, tutti come Igobi o come Naipi e Tarobà, spinti dalla smania di potere o dalla forza dell’amore, ma sempre prima di tutto sottomessi all’indomabile potere della natura, che tutto dà e tutto prende, proprio come raccontava il nonno...

 Ed ecco che, giunta una nuova notte, lavate di dosso le paure e rigenerate in nuova forza vitale, anche dalla mia memoria sgorgano come fiumi le parole a disegnare ricordi e sensazioni, tornano quelle parole che, più di una volta, in diversi luoghi del mondo, un nonno qualsiasi mi ha insegnato attorno a un fuoco...

 “Acqua che passa come storia bagna le rive del tuo domani

Acqua che casca come scoria schianta i resti del dolore

Acqua che sprofonda nella storia come bianco oblio della memoria

Terra rossa come polpa di guaiaba a colazione

Terra rossa come colpa di sangue caldo e tradizione

Terra rossa come polpa di sangue misto per redenzione

E nel centrifugo inferno liquido

Cadono antiche leggende precolombiane

Cadono di una Nuova Europa le speranze

Lasciando solo il ricordo livido

Di croci gesuite nelle tue missioni

Di indios, lotte, morti e conversioni

E nel centrifugo inferno liquido

Cadono anche le ultime certezze

Cadono dei popoli le insicurezze

Lasciando solo il ricordo livido

Di notti di luna passate a tramandare

Di notti di stelle riemerse dal mare.”

 Caterina Suggelli

Foto realizzate da Caterina Suggelli

 

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