OK!Valdisieve

Il mio Everesting: Gugliemo Braccesi si racconta a cinque mesi di distanza

Abbonati subito
  • 723
Il mio Everesting: Gugliemo Braccesi si racconta a cinque mesi di distanza Il mio Everesting: Gugliemo Braccesi si racconta a cinque mesi di distanza
Font +:
Stampa Commenta

Ci sono voluti cinque mesi di sedimentazione per darmi la voglia di scrivere “le mie memorie” sull’Everesting.

Innanzi tutto, cos’è l’Everesting? E’ una prova che può essere svolta in bicicletta o a piedi e consiste nel superare la misura di 8848 metri di dislivello (l’altezza dell’Everest) in una unica soluzione. Quindi fare 8848 metri in salita ed altrettanti 8848 metri in discesa, senza mai fermarsi per dormire.

Tutto nacque a marzo inoltrato quando, durante il periodo di lock down, mentre migliaia di persone venivano colpite dal covid, gli operatori sanitari di tutti gli ospedali d’Italia erano oberati di lavoro, costretti a turni massacranti in condizioni disumane. Mi sentii inerme di fronte a tanta disperazione e la voglia di poter portare il mio aiuto, mi fece venire in mente il mio Everesting. Creare un evento che attraverso piccole gocce sarebbe andato a formare, se non un mare, almeno un lago, un evento in cui io avrei messo tanto “lavoro” e tanti avrebbero potuto mettere un piccolo contributo. Un evento attraverso il quale poter dimostrare che chiunque, se motivato da buoni propositi, può portare a termine una prova ancorché immaginata difficilissima. Tramite un amico che lavora in Ospedale a Borgo San Lorenzo, riuscii ad entrare in contatto con alcuni responsabili dell’Azienda USL Toscana Centro che mi misero a disposizione un conto corrente su cui far confluire tutte le piccole o grandi donazioni e attraverso il quale, in modo assolutamente trasparente, sarebbe stato possibile portare il nostro contributo verso una categoria, verso un sistema, che stava attraversando uno dei periodi più duri della storia recente. Nacque così un’insolita raccolta di fondi in favore dell’Ospedale del Mugello.

E allora, visto che non si poteva uscire di casa, nemmeno in bicicletta, nemmeno in solitaria, iniziai ad allenarmi incessantemente sui rulli. Tutti i giorni, un’ora e mezza o due di faticosissimi rulli. Mi allenavo un po’ con la squadra dei “miei” esordienti e molto per conto mio, sulla terrazza del mio ufficio che era diventato una specie di palestra.

Non fu facile tenere alta la motivazione per continuare a pedalare senza veder scorrere sotto di me la strada, senza vedere il continuo variare del panorama, senza sentire il vento sul viso, durante delle giornate di una meravigliosa primavera. Fu ancora più difficile, una volta che ci fu resa la possibilità di pedalare, riuscire a trovare un tempo di pedalata che minimamente potesse avvicinarsi al tempo del mio Everesting. Il tempo delle mie uscite non aveva mai superato le due ore sui rulli e, da maggio a fine luglio, dovevo trovare almeno altre venti ore da aggiungervi.

Iniziai a fare due o tre allenamenti alla settimana un po’ più lunghi, cercando di farci rientrare impegni familiari, impegni professionali ed un po’ di ore di sonno. Già, perché sovente mi ritrovavo ad uscire ad ore indicibili, pedalando la mattina prima dell’alba, o la sera e la notte. Ma questo fu un buon allenamento per riuscire a comprendere quanto diverso sia pedalare con la luce del sole, o illuminando solo un piccolo spazio avanti a te, con quel misero fanale che si può portare in bicicletta. Soprattutto compresi quanti siano gli animali che, nelle tenebre, vaghino in cerca di cibo. Nel profondo silenzio della notte, mentre pedali nel mezzo del bosco e dove gli unici rumori che senti sono quelli dati dal rotolamento delle tue ruote e dal tuo ansimare, ogni impercettibile rumore che viene dalla boscaglia ti fa sobbalzare sul sellino e schizzare il cuore in gola. Mi sono sorpreso più volte a fischiettare in discesa o a bofonchiare parole incomprensibili in salita, solo per aumentare il mio rumore, per far sentire che c’ero e che, in quanto umano, non ero una preda da assalire.

Ma sono state anche le emozioni più belle. Il tramonto ed il sopraggiungere delle tenebre dalla vetta del Monte Falco in una limpidissima sera di inizio estate. Il silenzio assoluto nei boschi del Monte Giovi. Le uniche luci che vedi in lontananza e la miriade di stelle che riesci a vedere solo da luoghi remoti. Mai un pensiero negativo invece nel mio lungo peregrinare solitario, sia durante le notti nel bosco, sia durante le assolate giornate in bicicletta da corsa lungo i passi appenninici. Perché tanti chilometri li ho alla fine macinati anche in bici da corsa, con uscite che mi hanno portato a scalare 5, 6, 7 passi per volta, tornando a casa con delle razzate di sole degne d’un fiorentino alle spiagge bianche di Rosignano, spesso talmente accaldato da buttarmi nella nostra piscinetta senza neanche levarmi il casco.

Pochi i compagni d’uscita, un po’ per le fobie da assembramento, un po’ per gli orari poco consueti, un po’ perché trovare stacanovisti da 6-7 ore d’allenamento non era facile. Pochi ma buoni, spesso con il mitico Marchino, detto il Maestro dei maestri, in mio vate ciclistico per eccellenza, o SuperGio, l’unico che non si tira mai indietro se non per prendere la rincorsa, o il Gallo, capace di tentare l’impossibile e pure di riuscirci, o il Capitano e Aramix sempre pronti a sfoderare un giro inconsueto e mai noioso. Ma se pochi erano quelli che ogni tanto mi hanno accompagnato, in tanti erano quelli che in un modo o in un altro hanno contribuito sostenendomi con un incoraggiamento, con una battuta, con una telefonata, o con un… oh, se hai bisogno fai un fischio.

Vennero in mio aiuto anche amici vicini e lontani; persone che vedevo spesso e quelle che non vedevo da tanto tempo, gente che dello sport ha fatto la loro vita e che compresero la bontà del gesto e vollero esserne parte, come Massimo, Pippo, Nicola… Si affezionarono alla mia impresa gli amici di Ciclismo Mugellano che con le loro numerose dirette facebook diffusero il mio messaggio o Saverio che sul suo giornale on line (OKMugello.it)promosse la mia iniziativa, nonostante la sua atavica avversione al ciclismo. Furono tanti a sostenermi, ma non tutti.

La preparazione ed il pre-prova però, furono “aggrediti” da due eventi che misero in forse l’evento. Il focolaio covid in un centro estivo al quale partecipava mio figlio e che lo mise in quarantena a 10 giorni dal mio Everesting, gettò una forte preoccupazione sulla possibilità di partecipare. Se lui fosse risultato positivo, al di là di eventuali complicazioni, saremmo dovuti andare tutti in quarantena. Fortunatamente il caso volle che lui ne fosse fuori, risultando negativo, ma comunque obbligato alla quarantena che con grande tristezza lo tenne fuori dalla partecipazione anche solo come spettatore. E la telefonata del Vice-Sindaco di San Godenzo, il giorno prima della partenza, che bloccò tutto. Già, purtroppo in zona, alcune settimane prima, si era smarrito un cercatore di funghi e del quale non si erano più avute notizie. E nel giorno del mio Everesting, tutta l’area del Monte Falco sarebbe stata bloccata per consentire alle squadre con i cani da ricerca, di operare senza la problematica dei disturbi esterni. Ovviamente fui costretto a spostare di un giorno la partenza. Può sembrare un’inezia quella di traslare tutto di un giorno, ma non quando hai progettato mentalmente tutta l’organizzazione fino nei minimi particolari. Oltretutto c’era in arrivo una area di instabilità meteo che avrebbe potuto portare in zona forti temporali, ed era una eventualità che volevo assolutamente evitare.

Il giorno della partenza l’emozione si tagliava con il coltello e da Piancancelli, dove avevo portato il camper a fine mattinata, me ne restai a prendere il fresco del pomeriggio in totale ozio fino all’arrivo della Stefania, della Susanna, di Lello e di Hidde. Poi mangiai un panino, mi vestii e scesi in bici a valle, dove mi aspettavano per la partenza ufficiale che sarebbe scattata alle 18 in punto. Avevo scelto questo orario per utilizzare le ore della notte quando ancora il fisico era in “buono stato” e per sfruttare al massimo le ore di fresco. Alla partenza c’era un quarto della mia famiglia, un quarto era in vetta, un quarto era a casa in quarantena, un quarto era in bicicletta. C’erano molti amici venuti per farmi il tifo, c’erano quasi tutti i gruppi ciclistici mugellani, c’era il Sindaco ed il Vice Sindaco di San Godenzo, c’era una rappresentanza dell’Unione dei Comuni Valdarno e Valdisieve, c’erano Giovanni e Lorenzo che avrebbero fatto con me la prima salita per poi accamparsi in vetta ed attendere il mio trascorrere delle ascese. C’erano proprio tutti, ma qualcuno non c’era.

La prima salita fu la più faticosa di tutte. L’ultima fu la più dolorosa di tutte, nel mezzo ci furono altre sei salite lunghe, calde, fredde, assonnate, deste, dure, tutte tremendamente dure, ma non impossibili. Perché qualsiasi salita è dura, non esiste una salita facile. Se ti risulta facile vuol dire che non la stai spingendo. Tutte sono dure, ma con un obbiettivo da raggiungere diventano possibili.

La prima salita fu così dura che arrivato in vetta, la Stefania mi disse che ero bianco cadaverico. Stavo male di stomaco, forse il panino che avevo mangiato era stato troppo asciutto. O forse avevo bevuto troppo poco come mi dicevano Giovanni e Lorenzo. O forse il caldo afoso mi aveva dato fastidio… fatto sta che pensai che se alla prima salita ero in quelle condizioni, probabilmente non sarei andato molto lontano.

Durante la seconda salita, arrivato nel tratto più pendente del bosco dovetti addirittura scendere di bici e poco dopo fermarmi per il mal di schiena. Non era cominciata bene e stava procedendo male. Il morale non era proprio alle stelle. Nel frattempo cominciava a fare buio…

Al mio arrivo in vetta mi fermai un attimo a cercare di rimettere insieme i cocci. Una breve sosta per cambiarmi e coprirmi per la discesa in quanto, con il calare del sole, cominciava a fare freddo. Forse bastarono quei pochi minuti a ritrovare serenità e tranquillità, forse lo stomaco che aveva ripreso a non farmi male, ma una volta ripartito trovai il ritmo per proseguire con maggiore determinazione.

Alla base c’era Nicola ad attendermi, ad aiutarmi con la svestizione, a rifocillarmi in caso di necessità e soprattutto a massaggiare le mie gambe per fargli ritrovare una migliore elasticità. Per la terza salita trovai anche Marco che mi aveva portato un campanaccio da suonare per l’ultimo giro, un paio di luci da mettermi addosso, oltre alle mie ed una bellissima felpa del mondiale di ciclismo a Firenze, magari non da usare durante il mio Everesting, ma da sfoggiare per altre occasioni. Mi seguì con l’auto per alcune curve, poi mi lasciò al mio destino. Proseguii solitario transitando per la terza volta davanti al circolo di Castagno dove gli avventori mi guardarono incuriositi anche a questo passaggio.

La gamba, nel frattempo, era tornata ed avevo cominciato a pedalare con maggiore vigore tanto da fare la terza salita con un ottimo ritmo. Fu quindi la volta della prima sosta per mangiare qualcosa di più sostanzioso e del primo riposo un po’ più lungo. Dopo aver mangiato un piatto di pasta, mi sdraiai un po’ nel letto del camper. Fuori l’allegra combriccola degli amici chiacchieravano e ridevano narrando aneddoti di scabrose avventure. Da dentro mi divertivo ad ascoltare le loro storie, anche perché di dormire non se ne parlava proprio. Dopo una quarantina di minuti di riposo ripartii per la quarta discesa. Il rito della vestizione prevedeva, sopra la divisa estiva da ciclismo, un paio di pantaloni lunghi imbottiti ed una giacca a vento. Lassù a 1600 m non era fresco, era freddo e la discesa era molto lunga. Arrivare a valle con le gambe congelate era quanto di meno consigliabile ci fosse.

La quarta salita fu l’esaltazione del ritmo, con una cadenza sempre sostenuta ed un’ottima andatura. Evidentemente la pasta mangiata ed il riposo fatto avevano dato buoni frutti. Ad aspettarmi alla base in fondovalle c’era Tommaso che, finito di lavorare in pizzeria ad un’ora molto tarda, era venuto fin lassù per fare una diretta facebook notturna da mettere sulla pagina di Ciclismo mugellano. Salii sia l’asfalto, sia lo sterrato, sia il bosco, senza mai un’incertezza, senza mai mollare un attimo, in questa salita stavo proprio bene.

A metà salita c’erano i miei genitori fermi in auto a controllare i miei passaggi. Durante la notte si appisolavano e quando passavo gli facevo un grido di saluto. Loro saltavano fuori dall’auto e li sentivo in lontananza gridarmi: ti serve qualcosa?? Un paio di volte mi sono fermato a mangiare la crostata che mi aveva fatto la mamma ed a bere acqua e cocacola. Poi ripartendo la mamma, come quando correvo in moto, mi diceva: vai piano, mi raccomando!! In salita, ogni volta, l’accontentai…

La quinta salita fu quella dell’inizio del dolore alle ginocchia. Ormai i metri di dislivello erano oltre i 5700 e si stava entrando nel mondo sconosciuto… In allenamento non ero mai andato oltre quelle misure, né in termini di ore, né in termini di dislivello. Quello che sarebbe successo di lì in avanti era un mistero da scoprire strada facendo.

La sesta salita fu quella del mattino, quella in cui riapparvero molti amici a farmi compagnia, quella in cui Nicola, uscito dal torpore di una notte insonne, salì in bici e fece la strada con me e Massimo. Il passo cominciava a calare, ma al contempo s’avvicinava il risultato. Durante la salita uscirono alcune persone di casa per farmi i complimenti, avevano assistito più o meno a quasi tutti i miei passaggi e facevano il tifo per me. Alla Fonte del Borbotto c’erano persone accampate che mi incitarono e mi salutarono. Alcuni bambini mi salutarono timidamente. Ovviamente gli risposi ringraziandoli, anche loro, in modo assolutamente spontaneo, facevano il tifo per la riuscita del mio impegno.

Nella settima salita mi accompagnò per un pezzo Paolone, poi il gruppone di Bicipedia che aveva unito un giro in mountain bike ad un saluto per me. E poi arrivarono i ragazzi dell’Appenninico. Con le loro bici avevano fatto quella terribile salita per venire a vedermi passare. Mai e poi mai avrei potuto mollare nonostante fossi ormai a grattare il fondo del barile.

Nell’ultima salita, dopo venti ore di bicicletta, le ginocchia mi facevano male, il culo mi bruciava, le mani erano informicolite da ore, il collo era stanco. Salivo pesantemente pedalata dopo pedalata insieme ad Andrea, Massimiliano, Leonardo e Nicola. Il caldo era tornato a farla da padrone. Massimiliano continuava a bagnarmi la testa con la sua borraccia, mentre Andrea mi chiacchierava per distogliermi dalla fatica. Dovetti scendere di bici un paio di volte e continuare per qualche metro a piedi, ma ormai la meta era vicina. A qualche chilometro dall’arrivo forai. Non ci si poteva far mancare nulla. Con del nastro adesivo avvolsi la gomma cercando di tappare alla meno peggio il foro, il resto lo fece il lattice, consentendomi di proseguire. Al Borbotto trovai tutti i ragazzi del CC Appenninico ad aspettarmi ed a gridare con grande entusiasmo. Poi trovai altra gente che non conoscevo a fare il tifo, oramai si era sparsa la voce. Gli ultimi chilometri li pedalai con maggiore scioltezza, forse vedevo la fine o forse non vedevo l’ora che finisse. Erano passate ventidue ore dalla partenza, avevo fatto oltre 220 km in mountain bike e salito oltre 9000 metri di dislivello. Alla sbarra di Piancancelli la Stefania cominciò a correre accanto a me ed a filmare il mio arrivo. Io avevo pedalato per tutto quel tempo, lei era stata sveglia per seguirmi per tutto quel tempo. Arrivammo insieme al traguardo finale con un urlo di gioia, di liberazione, forse di sofferenza finita, sicuramente di felicità. Insieme a me sul punto più alto del mio Everest, la Stefania. Con lei stappai una boccia di Prosecco di Valdobbiadene, ne bevvi un piccolo sorso, poi staccai la bandiera che virtualmente simboleggiava la mia vetta. Sagginale-Everest e ritorno era stato portato a compimento, così come la raccolta fondi in favore dell’Ospedale del Mugello che, in realtà continuò ancora per altri diversi giorni.

In tanti mi hanno seguito, in tanti mi hanno incitato, uno, per fortuna uno solo, ha detto che lo facevo per il mio ego. Un altro ha detto che non avrebbe mai fatto la donazione per l’Ospedale in quanto io volevo dimostrare di essere un atleta. Io un atleta? Io che ho scoperto il ciclismo a 46 anni? Per fortuna la maggioranza delle persone mi ha sostenuto con parole d’incoraggiamento, qualcuno è venuto da fuori zona per sostenere me e il nostro Ospedale, qualcuno ha attraversato il mare, qualcun altro ha attraversato le Alpi. A me rimane la soddisfazione di aver battuto un mio limite, fisico e psicologico e di aver in qualche maniera, aiutato chi ha più bisogno di me. A tutti quelli che vennero quella sera, quella notte e quel giorno dopo, andò tutto il mio ringraziamento per aver dedicato 22 ore della propria vita per una nobile causa.

Dott. Geol. Guglielmo Braccesi


Lascia un commento
stai rispondendo a