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Oltre i 4000 metri. Il racconto della salita al Monte Rosa del barberinese Chelli

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In cima alla Piramide Vincent In cima alla Piramide Vincent © Matteo Chelli
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Li ho letti nei racconti, li ho sognati, li ho desiderati con tutto me stesso e alla fine li ho conquistati: mercoledì 19 agosto ho raggiunto per la prima volta i quasi 4600 metri della Punta Gnifetti, su cui sorge il Rifugio più alto d’Europa, la Capanna Margherita.

Ma andiamo con ordine. Intorno alle 04:00 di martedì 17 agosto parto con un gruppo di amici alla volta di Alagna Valsesia, piccolo comune al confine tra Piemonte e Valle d’Aosta. Da lì, con gli impianti di risalita, raggiungiamo Punta Indren, a quota 3275 metri, punto di partenza della nostra salita. L’aria si fa subito “frizzante” e gli effetti dell’altitudine non si fanno attendere. Sono già salito in passato fino a 3600 metri e so quel che mi aspetta. La consapevolezza del mio corpo mi dà la carica giusta per progredire. In circa un’ora e un quarto superiamo i 400 metri di dislivello positivo che ci separano dalla Capanna Gnifetti, dove pernotteremo. Il percorso segue prima quel che resta (ahimè) del ghiacciaio di Indren, poi un tratto ferrato un po’esposto. Una volta giunti in cima ad uno sperone roccioso la traccia prevede l’attraversamento in traverso ascendente del ghiacciaio del Garstelet e infine, con un ultimo tratto verticale di roccia (attrezzato con corde e pioli) si arriva al rifugio, posto a quota 3645 metri. É già una grande emozione essere qui: immersi ai piedi dei ghiacciai del Monte Rosa, ci sentiamo minuscoli in confronto alla bellezza e alla potenza estasiante della Natura. Il pomeriggio trascorre molto velocemente, contrariamente alle aspettative. Non sentiamo la mancanza della tecnologia e delle comodità di tutti i giorni: una chiacchierata scambiata, le carte, i giochi da tavola e una calda stufa estiva (sembra, anzi è, un ossimoro ma a 3600 metri questo ed altro) sono dei validi sostituti che ci fanno riscoprire e apprezzare fino in fondo valori come l’amicizia e la serenità; valori che nella vita di tutti i giorni siamo ormai abituati a dare per scontato, ma che quassù, più vicini al cielo, ci strappano un sorriso.

Un tramonto mozzafiato pone fine a questa prima giornata. Personalmente, nonostante la quota, mi sento abbastanza bene: talvolta, infatti, una notte a queste altitudini può significare il fallimento in partenza dei propri progetti se il nostro fisico non riesce ad acclimatarsi adeguatamente. Il giorno successivo la sveglia suona alle 03:50. Una ricca colazione e poi via, ci leghiamo e indossiamo l’attrezzatura alpinistica. Siamo pronti per partire. Fuori un meraviglioso cielo stellato fa da contorno ad un’atmosfera selvaggia e avventuriera. Con gli occhi ancora un po’assonnati ci mettiamo in marcia seguendo la traccia che attraversa inizialmente un bel labirinto fatto di orridi crepacci e di ponti di neve, fortunatamente saldi grazie al rigelo notturno. È indescrivibile la magnificenza dell’ambiente in cui siamo immersi: le aguzze vette che ci circondano, con le loro vertiginose pareti di roccia e ghiaccio si stagliano all’orizzonte quasi a toccare il cielo. Sono momenti e sensazioni che l’unica macchina fotografica che è in grado di immortalare è quella del cuore.

Saliamo in modo regolare e deciso e ogni passo è pura gioia ed emozione. Una conquista interiore. Mi tornano alla mente tutti i bei ricordi. Ciò che infatti la montagna riesce a trasmettere non è solo sontuosità esteriore, ma anche un grande senso di pace interiore. Ti scava nel profondo dell’animo regalandoti attimi unici e irripetibili. Manca poco ormai alla cima. Mi sembra quasi di non sentire la fatica. Non dimenticherò mai quegli ultimi metri. Quelle ultime ramponate in cui tutte le sensazioni provate si fondono insieme a formare una semplicissima, ma significativissima, combinazione di parole: “ce l’abbiamo fatta ragazzi” esclamo girandomi indietro verso Cesare ed Enrico. Ancora non ci credo. Ci abbracciamo, scattiamo qualche foto e ci godiamo forse (anzi, senza forse) uno dei momenti più belli della nostra vita. Il Sole che sembra così vicino, le enormi seraccate di ghiaccio che svettano sotto di noi e le insormontabili pareti della Punta Dufour e del Lyskamm ci lasciano senza fiato facendoci scendere anche qualche lacrimuccia. Il tempo passa velocemente quassù, in modo quasi surreale. È come se tutto fosse contemporaneamente immobile e in movimento. Ogni secondo che passa è un secondo da vivere. Mai monotono, mai banale.

Dopo esserci rifocillati decidiamo di scendere. Il tempo lo consente e la giornata è delle migliori, per cui, prima di tornare al rifugio, ci dirigiamo verso la Punta Zumstein (4553 metri), quinta vetta alpina in ordine di grandezza, a cui si accede per una facile, ma notevolmente esposta, cresta nevosa, che negli ultimi metri lascia il passo ad alcune rocce che si superano direttamente. Riusciamo così a completare il giro salendo anche su questa splendida cima. È tutto come ho sempre desiderato e poi pianificato accuratamente. Vedere materializzarsi i propri sogni è forse ciò che mi ha colpito di più. È un attimo fuggente, un millesimo di secondo. È qualcosa che c'è e poi non c'è più. E forse è proprio questo il bello della montagna: si è costantemente alla ricerca di qualcosa che non esiste. Scattata qualche foto e dopo esserci congratulati nuovamente a vicenda scendiamo velocemente e tra una chiacchiera e l’altra, prestando attenzione ai ponti di neve cotti dal Sole, torniamo al rifugio, stanchi, ma felici come non mai.

Il programma prevede ora un’altra notte alla Capanna Gnifetti e di risalire nuovamente in quota per realizzare l’ascensione di altre cime di oltre quattromila metri. La mattina seguente tre ragazzi del gruppo decidono di scendere, mentre insieme a Cesare, sentendoci in forma, riprendo il cammino verso l’avventura. Stavolta la nebbia ci avvolge alla partenza, ma appena cinquanta metri sopra il rifugio il cielo è limpido e terso e ci regala un’altra giornata memorabile. Arriviamo fino al colle tra Ludwigshohe e Corno Nero, a oltre 4300 metri, poi scendiamo e saliamo nell’ordine, Balmenhorn (4167 metri), su cui sorge anche il Bivacco Felice Giordano, e Piramide Vincent (4215 metri). Appena sorge il Sole, la nebbia sotto di noi ci consente di assistere ad uno spettacolo che tutti avranno sicuramente visto in qualche foto: il mare di nuvole. Noi siamo sopra, come sospesi. Guardiamo verso l’orizzonte, verso il punto in cui il ghiaccio lascia il posto alle nuvole. “Siamo davvero fortunati” penso. Non ho mai amato i giri di parole, tantomeno i discorsi smielati, ma quando Boris Vian scriveva che “Sulle cime più alte ci si rende conto che la neve, il cielo e l’oro hanno lo stesso valorebeh, probabilmente tutti i torti non li aveva.

Riscendiamo e stavolta siamo costretti a dirigerci verso la funivia per riprendere la strada di casa. L’avventura volge al termine. Avremmo voluto rimanere ancora, ma è impossibile essere tristi. Quel che abbiamo visto, provato e realizzato sarà per sempre parte di noi, del nostro bagaglio umano e personale. Ai ragazzi come me voglio dire di osare, di pensare in grande e di sognare sempre, anche se quello che vogliamo sembra irraggiungibile. I sogni colorano il mondo, ma soprattutto ci rendono vivi. Porsi degli obiettivi, inseguirli, assaporare l'avventura, la paura e la fatica per raggiungerli: ne vale la pena!

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